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Anni Trenta... Ho vissuto in quel periodo, ormai lontano, la mia giovanile passione per il volo. Era per noi ciò che forse per i ragazzi d'oggi è la passione per le corse di Formula 1, per la velocità! Eravamo sempre con il naso in aria, pronti a cogliere il primo lontano rombo di un motore. Sapevamo tutto: sulle gare, sui primati, sulla Coppa Schneider e seguivamo, attraverso i giornali, ciò che accadeva a Calshot, a Norfolk, a Desenzano o a Guidonia. Sapevamo tutto sui motori e sugli idrocorsa; sul Macchi di Agello progettato da Castoldi e sui Supermarine di Reginald Mitchell. Ora li vado spesso a vedere i bolidi rossi, un po' sbiaditi ma sempre belli nell'ombra dei musei; e il loro esame è sempre una fonte di meraviglia per le soluzioni tecniche. Io mi occupo di cose di mare e progetto barche, ma ho sempre avuto un rapporto di amore verso le macchine volanti dalla cui tecnologia e conoscenza ho tratto grandi insegnamenti.

Ho tentato di ricostruire e, perché no..., di far vincere con la fantasia quanto si sarebbe potuto svolgere a Calshot 66 anni fa, quel giorno di grande delusione per noi ragazzi, perché ritengo che lo straordinario Piaggio PC 7 di Dal Molin abbia rappresentato con largo anticipo 1'anello di congiunzione tra le tecnologie nautiche e quelle aeronautiche, ma, soprattutto, dal punto di vista progettuale, una maniera di pensare senza limiti di sorta.

Io e la Coppa Schneider
di Franco Harrauer

Proprietà del copyright Libreria Aeronautica di Giovanni Gatti ©   

13 OTTOBRE 1931

Tommaso Dal Molin, maresciallo pilota della Regia Aeronautica Italiana, abbassò sugli occhi i suoi vecchi occhialoni da aviatore le cui lenti di celluloide fortemente ingiallite dai gas di scarico dei motori tradivano una profonda affezione. Si accomodò un po' meglio nello scomodo e stretto abitacolo di quella macchina volante che a tutto assomigliava tranne che a un idrovolante da corsa. Non aveva neanche il paracadute come schienale e il salvagente pneumatico attorno alla vita gli limitava il movimento delle braccia.

L'aereo galleggiava in acqua, un'ala un po' inclinata, con la fusoliera emersa per meno della metà. L'acqua era a poche decine di centimetri dall'abitacolo dal quale sporgeva la testa del piccolo pilota vicentino. Davanti a lui, a cavallo della stretta fusoliera, il motorista abbassò il profilatissimo parabrezza che ora lo avrebbe sigillato dentro l'aereo.

Lui, Agello, De Bemardi e gli altri piloti della Scuola di Alta Velocità, che rappresentavano l'Italia alla Coppa Schneider, erano stati scelti oltre che per le loro indiscusse abilità nel pilotaggio di quelle straordinarie e difficili macchine, anche per la loro ridotta 'taglia' che ben si adattava alla carlinga costruita attorno alla sagoma del motore. Il sole settembrino splendeva in un cielo azzurro allo zenit del quale era una piccola solitaria nuvola.

Gli avieri specialisti, l'ingegner Gabrielli, i tecnici della Piaggio e dell'Isotta Fraschini, erano affiancati all'aereo sul motoscafo appoggio con il quale il rosso Piaggio PC7 era stato rimorchiato sino alla zona di partenza dinanzi all'idroscalo della RAF a Calshot.

Dal Molin fece un cenno con il capo e dall'imbarcazione cominciò a fluire, con un sibilo, attraverso un tubo flessibile, l'aria compressa per la messa in moto. Sul cruscotto la lancetta del contagiri cominciò a vibrare, il pilota apri i contatti e il motore cominciò stentatamente a girare mentre dai corti tubi di scarico disposti in duplice fila davanti al parabrezza, uscivano sbuffi di fumo nero, poi qualche scoppio soffocato con lunghe fiammate rosse; infine, improvviso un rombo lacerante e crescente con un susseguirsi di rapide e corte fiamme bluastre, indizio di buona carburazione. La temperatura e la pressione dell'olio erano già entro i giusti valori perché il motore era stato messo in moto a terra e scaldato a dovere prima del cambio delle candele. Il raffreddamento non presentava problemi con i radiatori che coprivano quasi tutta la superficie delle ali e ora erano bagnati dalle fredde acque del Solent. L'aria era impregnata dal caratteristico odore dell'olio di ricino caldo, misto al pungente odore del benzolo, del metanolo e dell'acetone che componevano le alchimistiche miscele dei carburanti da gara: il profumo della competizione. Il motorista staccò il tubo dell'aria e, dopo un cenno di saluto e augurio, saltò sul motoscafo. Il pilota innestò, con una leva alla sua sinistra, la frizione della trasmissione all'elica marina il cui asse passava sotto il sedile. Ora l'aereo cominciava a flottare; Dal Molin accelerò sinché il muso con l'appuntita ogiva dell'elica aerea emerse completamente, l'aereo cominciava a essere sostenuto dalle alette idrodinamiche che sostituivano i galleggianti tradizionali. A poco più di 1.000 giri, avendo ora tutta la fusoliera emersa, fu possibile aprire le prese d'aria laterali dei 4 carburatori: adesso il motore respirava meglio.

Con un assetto così cabrato la visibilità anteriore era nulla, ma agendo sul timone con delle 'spedalate' a destra e sinistra, e procedendo a zig zag e sbandando come un ubriaco, l'aereo poco dopo raggiunse la linea del traguardo ove, circuitando con i motori al minimo, erano in attesa gli altri idrocorsa italiani. inglesi e francesi. Quando, dall'imbarcazione della giuria, la grande bandiera a scacchi dello starter si abbassò, un rombo di tuono si levò dai 7 motori portati al massimo dei giri. Sotto l'azione di resistenza delle grandi eliche a passo fisso, calettato solo per la massima velocità, i motori stentavano a prendere giri mentre le coppie giroscopiche generate dalle eliche stesse facevano affondare uno dei due galleggianti più dell'altro nonostante l'energico contrasto dei timoni. Tutti gli aerei avevano un assetto molto cabrato e con il naso in aria procedevano faticosamente tra nubi di bianca spuma che, nel vortice delle eliche, il sole trasformava in indescenti scie di arcobaleno. Il piccolo PC7, al contrario, con la sua elica ancora ferma in croce orizzontale, non risentiva della coppia ed era in rapida accelerazione. Adesso la visibilità era migliore e con un assetto quasi orizzontale, l'idrocorsa italiano era già in redan sulle sue piccole pinne idrodinamiche e saltellava sulle corte onde avendo già distanziato gli idro degli altri concorrenti che progressivamente entravano in planata e scivolavano ora veloci sino a prendere la velocità di sostentamento. Ora veniva, per Dal Molin, la fase critica: innestò con decisione la frizione antenore e con un colpo secco, che fece sbandare l'aereo, la grande elica metallica, sinora ferma in posizione orizzontale, cominciò a girare. Il pilota contrastò con decisione e prontezza, spingendo a fondo sulla pedaliera il piede sinistro e agendo con la cloche sugli alettoni. Disinnestata l'elica marina e poste le sue pale in bandiera, l'aereo con un ultimo balzo lasciò la superficie marina e si arrampicò per raggiungere la quota prescritta in gara.

I sette idrocorsa: i tre italiani, il Piaggio PC7 di Dal Molin, il Macchi MC72 a eliche coassiali di Agello, e il Macchi C67 di Scapinelli; i tre inglesi con il Supermarine S5 di Webster, l'S6 di Waghom, il Super 6B di Boothman, e il francese Bougolt su un prototipo sperimentale, correvano raggruppati ala contro ala verso il primo pilone di virata situato in mare davanti a Cowes, pilone che costituiva il vero punto di partenza del circuito di 50 km da percorrere per 7 volte.

Il primo lungo rettilineo vide lo sgranarsi della veloce squadriglia. Dal Molin sapeva che il suo veloce idrocorsa con la ridottissima superficie alare avrebbe fatto delle virate molto larghe rispetto agli avversari, e quindi spingeva a fondo nel rettilineo di 19 km sul lato nordest dell'isola di Wight, cosicché al pilone di St Helens si trovò alla pari del collega Agello e di Boothman. La virata era ad angolo retto, Dal Molin e Agello la impostarono con un brusco quarto di tonneau tenendo la cloche tirata contro il ventre. Il Supermarine S6 B non si inclinò oltre 45° e in tal modo i tre aerei si trovarono nell'ordine: Agello, Dal Molin e Boothman all'esterno.

La stretta virata 'Desenzano', manovra che gli italiani avevano perfezionato nella loro Scuola di Alta Velocità sul lago di Garda e che presto gli inglesi imitarono chiamandola 'Schneider', dava i suoi frutti pur sottoponendo le macchine e gli uomini a sollecitazioni e sforzi al limite della resistenza meccanica e fisiologica. Dopo il terzo pilone, sul rettilineo davanti a Portsmouth, il Piaggio di Dal Molin era in testa, il Macchi e il Supermarine appesantiti dai grandi galleggianti, rimanevano irrimediabilmente indietro. L'idea dell'ingegner Pegna, il progettista dell'aereo, e la costanza del giovane ingegnere Gabrielli nella messa a punto delle alette idrodinamiche, stavano per essere premiate. Dal Molin girò per un attimo il capo a destra, lato nel quale non veniva investito dai roventi gas di scarico. Tenendo fermi gli occhiali con la mano, per non vederseli strappare dalla furia dei 600 kmh, tentò di vedere dietro di sé e intravide il rosso MC72 e l'argenteo Supermarine, ormai parecchi chilometri alle sue spalle.

Era un sogno, Dal Molin pensò. E come in sogno, dopo aver controllato gli strumenti sullo scarno cruscotto, girò lo sguardo sull'altro lato e vide, come si aspettava di vedere, un paesaggio molto diverso: la riviera gardesana con le sue pareti rocciose a picco illuminate dal sole, le gallerie della strada costiera che da Desenzano porta a Riva del Garda, la superficie speculare del lago di Garda correre veloce sotto di lui a più di 600 kmh. Ma il rombo del suo motore si attenuava sempre di più come una musica che sfuma.

Il maresciallo pilota Tommaso Dal Molin tirò dolcemente a sé la cloche, il bolide rosso cabrò silenziosamente verso il cielo azzurro, verso la piccola nuvola bianca che lo attendeva allo zenit entro la quale scompariva.

In realtà, Dal Molin il 13 settembre del 1931 non partecipò e non vinse la tredicesima e ultima edizione della Coppa Schneider e nessun italiano vi partecipò. Il 18 gennaio, in una chiara giornata di sole, con una sola piccola nuvola in cielo, Tommaso Dal Molin, che con altri piloti si alternava nelle prove e nei collaudi degli aerei che avrebbero dovuto partecipare alla Schneider, moriva sul lago di Garda pilotando un idrocorsa che si disintegrò in volo. Il Piaggio PC7 non andò a Calshot, non riuscì a Desenzano a superare la fase di messa a punto delle sue rivoluzionarie alette idrodinamiche, così come il Macchi MC72 di Agello. Il PC7, che tutti ormai chiamavano affettuosamente 'Pinocchio' per il suo lunghissimo naso, con la sua anticonvenzionale configurazione aveva palesato noie meccaniche alle frizioni di innesto delle eliche e fenomeni di cavitazione o aereazione alle alette che provocavano vistosi sbandamenti per la mancanza di portanza non appena le superfici cominciavano ad affiorare. Tutto ciò nonostante l'abilità e la costanza di Dal Molin e gli studi e l'entusiasmo del giovane ingegner Gabrielli che molti anni dopo sarebbe diventato il grande progettista della Fiat Aviazione. Tutto si sarebbe risolto più tardi, in sede sperimentale, nella galleria idrodinamica di prova con dei profili supercavitanti. Il motore Fiat AS6, montato sul Macchi MC72 di Agello, un mostruoso doppio motore che con 24 cilindri, in prova sul banco, erogava più di 3.000 HP e azionava un'elica coassiale controrotante, aveva dei continui ritorni di fiamma dovuti alla compressione dinamica che si manifestava a monte del compressore.

Quando tutto fu risolto era troppo tardi per la Schneider ma non per una corsa a oltre 700 kmh che con Agello aggiudicò all'Italia, il 10 ottobre 1933, il primato mondiale di velocità per aerei a elica (categoria idro) che è tuttora imbattuto. Ma la data della corsa si avvicina inesorabilmente. Gli inglesi, poco sportivamente, rifiutarono lo spostamento della data di gara e il solitario Supermarine S6B di Boothman unico concorrente vinse l'ambito trofeo che per essere stato vinto per tre volte dagli inglesi, venne aggiudicato definitivamente agli inglesi. Allo stato dell'arte nell'anno 1930 (67 anni fa!) il PC7 di Dal Molin rappresenta ancor oggi quanto di più avveninstico e avanzato si potesse tecnicamente concepire e realizzare e fu un esempio tipico di come la pressione competitiva della Coppa Schneider spinse i progettisti a migliorare la scienza aeronautica e condusse a progetti avanzati che in alcuni casi si dimostrarono al di là delle possibilità contemporanee.

E' mia opinione che questo concetto, questo stimolo, sia stato il vero obiettivo dell'idea di Jacques Schneider proposta in quella sera piovosa del 10 gennaio 1913 nel salone dell'Hotel de Paris a Montecarlo.

 

GIOVANNI PEGNA

 

 

Giovanni Pegna nasce il 4 gennaio del 1888; già nel 1904 si interessa del volo, costruendo modellini di libratori e di eliche. Nel 1905 entra all’Accademia Navale, consegue nel 1911 la laurea in ingegneria navale, con una tesi nella quale compariva anche una dissertazione sulla stabilità dinamica longitudinale degli aerei. Sempre nel 1911 viene assegnato all’Arsenale della Spezia, dove inizia a volare come osservatore su idrovolanti biposto (nel 1913 conseguirà il brevetto di pilota di idrovolante). 


 

In questi stessi anni, oltre a progettare senza realizzarli due idrovolanti, è incaricato della costituzione di reparti di idrovolanti prima a Pesaro, quindi a Porto Corsini, Brindisi e Taranto. Effettua le prime prove di aerosiluramento, fra l’incomprensione dei superiori. Nel 1915 viene trasferito a Milano per sovrintendere al lavoro delle ditte aeronautiche, ma trova il tempo per progettare un idrovolante e due quadrimotori terrestri: la realizzazione dell’idrovolante viene commissionata alla Isotta-Fraschini, che continua nella lavorazione anche quando la commessa viene annullata; le autorità militari ritengono che questo fatto sia dovuto all’interessamento di Pegna, il quale viene condannato a tre mesi di arresti in fortezza per insubordinazione. Nel 1917 è presso la Direzione tecnica dell’aviazione militare, dove progetta un aereo stratosferico; nel 1919 lascia la R. Marina con il grado di maggiore. Progetta degli idrovolanti quadrimotori, ma non avendo il contributo della Marina il progetto viene abbandonato. Nel 1922 con il conte Giovanni Bonnmartini fonda la Pegna-Bonmartini, realizzando un velivolo da caccia che ha avuto una qualche fortuna; la ditta viene rilevata nel 1923 da Rinaldo Piaggio, ma l’aereo, pur vincitore di un concorso nazionale, viene abbandonato. Nella galleria del vento realizzata a Genova da Piaggio progetta una serie di idrocorse, un idroricognitore imbarcabile su sommergibile ed un idro catapultabile; l’idrocorsa PC-7 per la Coppa Schneider del 1929 non viene realizzato in tempo. Tenuto in considerazione da Balbo, ha fatto studi disparati sulla propulsione a reazione e sull’energia nucleare. È morto a Milano nel maggio 1961.

Sul fascicolo di giugno 1932 della Rivista Aeronautica e successivamente sul settimanale inglese The Aeroplane apparve un lungo articolo dell'Ingegnere Giovanni PEGNA, allora Direttore Tecnico della Piaggio ed uno dei piu' versatili progettisti aeronautici Italiani dell'epoca, intitolato "Idee sugli Idrovolanti da corsa". L'articolo fu poi ripubblicato in parte su un numero di Ali Nuove del 1959. Nel seguito si riporta la parte pubblicata da Ali Nuove perché non solo dimostra l'originalità delle idee di Pegna (allora Direttore Tecnico della PIAGGIO), ma costituisce un documento eccezionale del il tormentato processo di gestazione del P7 e del coinvolgimento dell'azienda nel campo degli idrovolanti per le alte velocità.


Generalita'

La corsa di velocità fra idrovolanti per l'assegnazione della Coppa Schneider ha avuto per effetto di stimolare gli ideatori verso la realizzazione di valori sempre più alti del rapporto fra la potenza utile del gruppo motopropulsore e la resistenza al movimento. Ciò ha condotto a macchine che, anche per noi tecnici usati a raramente meravigliarci, sembrano miracoli. Il motore Rolls-Royce di 2500 CV sistemato sull'S6 vincitore della Coppa Schneider di quest'anno (1932) è infatti un miracolo di meccanica, ed ugualmente ammirevole è la soluzione data in Inghilterra, seguendo la via classica, al problema di un'elica singola, capace di assorbire con buon rendimento una potenza così elevata.

In Italia si è realizzato per la gara del 1931 un gruppo propulsore formato da due motori in linea e due eliche coassiali di opposte rotazioni, a simiglianza di quanto si fa nei siluri.

Credo che la potenza utile nei due casi si possa ritenere dello stesso ordine di grandezza, ossia inverosimilmente elevata, tanto in valore assoluto quanto in rapporto col peso. E' questo un prodigio di meccanica che fino a poco tempo fa sembrava irrealizzabile.

Ma come architetto, portato istintivamente a considerare il lato artistico e filosofico delle cose, oltre quello tecnico e scientifico, avrei veduti più volentieri il progresso seguire simultaneamente le due vie: accrescimento della potenza motrice della unità motopropulsiva, e diminuzione delle resistenze passive. Penso però che difficilmente questo mio concetto si sarebbe potuto realizzare, dato che il progresso dell'unità motrice è legato ad esperienze che si possono considerare di gabinetto, fatte nelle sale di prova dei motori sagacemente attrezzate, nel mentre il progresso aerodinamico richiede le prove in corpore vili su nuovi tipi di macchine.

Queste prove sono spesso un grave giuoco umano, nel quale la posta è, con notevole percentuale di probabilità, la vita preziosa di un giovane, eccezionale ed ardimentoso pilota.

Ancora una volta si dimostra così che il progresso umano avviene seguendo la via più facile. Ma da oggi, avendo percorsa quasi completamente questa via per merito dei progettisti e costruttori di motori italiani ed inglesi, si apre agli studiosi ed ai realizzatori il cammino verso la soluzione del problema aerodinamico, che vuol dar luogo a motovelivoli presentanti la minima resistenza possibile al movimento.

Su tale via ho studiato, da dieci anni a questa parte, ideando sette tipi di idrovolanti da corsa, e costruendone qualcuno. La fortuna, in diverse maniere, non mi ha assistito, ma spero che io, o altri, partendo dai concetti che tra poco esporrò o da concetti simili, possa realizzare l'idrovolante da corsa perfetto: perfetto nel senso che la sua velocità a bassa quota e con propulsione elicoidale sia al limite superiore delle possibilità pratiche dell'uomo.

Idrovolante ala-scafo

Già nel 1920, nella rivista che allora possedevo e dirigevo (L'Aeronautica, maggio 1920, pag. 29) scrissi in una nota: "sono da tempo convinto che è probabile che le massime velocità dei velivoli al di sopra di una certa potenza saranno ottenute dagli idrovolanti".

Tale convinzione è stata confermata dalla realtà ed anzi mai come oggi, che si è raggiunta e sorpassata dagli idrovolanti per la Schneider la considerevole velocità del 50 per cento di quella del suono, si è stati convinti che le alte velocità sono meglio appropriate per i velivoli marini che per quelli terrestri. E ciò sia perché il mare calmo offre un campo di distacco e di atterraggio di ampiezza praticamente illimitata, sia perché l'ala stessa e lo scafo-fusoliera servono per sostenere staticamente la macchina ferma, nel mentre gli aeroplani terrestri non possono fare a meno del carrello di atterraggio, e se questo è a scomparsa dovrà occultarsi in volo entro le strutture (ala o fusoliera) le quali perciò saranno o deformate o ingrandite a scapito della finezza, specie negli aeroplani da corsa che sono di piccole dimensioni.

Una prima realizzazione di queste idee è rappresentata nella figura 1 e risale al 1921.

Quell'idrovolante, che invero fu pensato per la corsa ma che potrebbe essere studiato in forme analoghe per la navigazione aerea corrente, mi sembra aerodinamicamente il più semplice concepibile nel campo dei piccoli e medi motovelivoli con corpo abitabile, e con gradualità da esso si potrebbe passare all'idrovolante con ala abitabile e senza fusoliera che sarà l'aeroplano più semplice concepibile e forse, quindi, l'aeroplano dell'avvenire.

Le difficoltà meccaniche e termodinamiche si intuiscono immediatamente e non appaiono gravi, quelle costruttive si arguiscono di piccola entità, nel mentre si può rimanere perplessi di fronte all'incognita (che allora mi si presentava più minacciosa che non oggi) dei momenti aerodinamici durante le manovre in volo, per l'abbassamento e il rialzamento dell'asse dell'elica.

Costruttivamente l'ala, monoblocco, potrebbe anche essere del tipo a "V" innestantesi sotto al motore e portante sul dorso l'incavo per il carter di questo. In tale caso la parte di ala vicina alla scafo resterebbe immersa nelle condizioni di riposo e conferirebbe all'idrovolante la stabilità trasversale statica, ed anche dinamica nei primi momenti del distacco. L'ala potrebbe ruotare insieme al motore, e si avrebbe così un notevole vantaggio per le manovre di partenza e di ritorno.

L'apparecchio nacque con piano fisso e mobile di coda, ma immediatamente pensai di impiegare un piano di coda tutto mobile come lo realizzai poco dopo con successo nel mio aeroplano da caccia P.2 avente l'ala analoga al Pc.1 (Pegna corsa 1, n.d.r.), e nel "Rondine". Con ciò ritenni che il pilota avrebbe potuto dominare la macchina qualunque fosse la posizione angolare dell'asse del propulsore.

Oggi si potrebbe pensare, nel caso dell'ala ruotante col gruppo motopropulsore, a connetterla con gli impennaggi orizzontali in maniera tale che l'ala stessa ed il piano di coda abbiano sempre il voluto loro sfasamento angolare reciproco.

Pochi anni dopo vidi un'idea analoga alla mia, sebbene ad altri fini e con altri mezzi, brevettata in Francia dal sig. Levasseur.

Oggi credo che il Pc.1 offrirebbe un interessante campo di studio e di possibilità, specie combinandolo col Pc.7 in modo da rendere minima in senso assoluto la sezione maestra dello scafo.

Mi preme osservare che in relazione a quanto ho detto poco fa nel Pc.1 lo scafo e l'ala si sarebbero aiutati per far galleggiare l'idrovolante, perché l'ala doveva essere coperta di compensato a simiglianza della costruzione Fokker e concorrere quindi con le sue estremità (o con la sua parte centrale nella soluzione ad ala bassa) alla spinta idrostatica ed idrodinamica ed a conferire al complesso la stabilità trasversale nella fase iniziale del distacco.

Del Pc.1 fu disegnato dal sig. Arrigoni il galleggiante, del quale fu iniziata anche la costruzione presso la Società Bastianelli di Roma (costruttrice del contemporaneo P.R.B.) ma ne venne sospeso il proseguimento per ragioni economiche.

Idrovolante da corsa classico

L'apparecchio terrestre da caccia P2 (PIAGGIO 2) (l'autore usa la sigla P.2, n.d.r.) da me progettato nel 1922 e costruito parte dalla Pegna-Bonmartini parte dalla PIAGGIO che lo condusse a termine, dette origine al Pc.2 (PIAGGIO P4) del quale mi fu richiesto il progetto nel 1923 per la Coppa Schneider del 1924 che non fu disputata.

Avevo osservato che il P2 con radiatori Botali e Clement aveva le caratteristiche di volo coincidenti praticamente con quelle prevedibili attraverso le prove del modello al canale del vento, e avevo veduto che il P2 senza radiatori era di buona finezza. Progettai perciò il P4 della ditta PIAGGIO, che è il Pc.2 della mia serie di idrocorsa.

Alcuni degli idrovolanti che in quell'epoca furono studiati in Italia per la Coppa Schneider sono rappresentati nella figura 2 che documenta una parte del nobile e forte contributo italiano al problema degli idrovolanti da corsa.

 

Aerodinamicamente il migliore era il ndeg. 4; ma nel mentre esso nella pratica realizzazione avrebbe dovuto subire dei peggioramenti per la presumibile necessità di alterare la forma dei galleggianti, il Pc.2 avrebbe subito piuttosto dei miglioramenti. In fatto il Pc.2 fu giudicato il migliore e commesso alla PIAGGIO.

Nel progettare il tipo definitivo Pc.3 ridussi al minimo che mi pareva possibile la sezione maestra della fusoliera e dovetti, in seguito a prove su modelli alla vasca, cambiare la forma ed il volume dei galleggianti. Con ciò credo che il Pc.3 sarebbe stato aerodinamicamente migliore del Pc.2 e anche dell'idrovolante ndeg. 4.

Dal confronto delle polari con alcuni dati caratteristici relativi agli S.5 ed S.6 inglesi desunti dalle notizie apparse sulla stampa tecnica si vede che questi idrovolanti hanno lo stesso ordine di finezza del Pc.3. Tenendo conto delle varianti di superficie portante e di volume dei galleggianti, si dimostra che l'S.6 non è aerodinamicamente dissimile dal Pc.3. Credo quindi che si possa ammettere che dal 1923 ad oggi (1932) il fantastico aumento di velocità massima realizzato sia dovuto più al progresso nel campo dei motori che non al perfezionamento aerodinamico delle macchine.

Il Pc.3 fu quasi interamente costruito, ed il completamento venne abbandonato per ragioni soltanto amministrative. Spero che il lettore vorrà concedermi la soddisfazione di riconoscere la mia priorità nell'ideazione della formola di idrovolante che più tardi, per merito della MACCHI e la SUPERMARINE, trionfò nella Schneider. Non vale, io credo, la eccezione relativa all'ala semi-spessa anziché sottile e controventata come la usano la MACCHI e la SUPERMARINE. Praticamente le due soluzioni, per le dimensioni di cui si tratta, si equivalgono anche per i pesi, mentre costruttivamente l'ala semi-spessa a sbalzo è, nell'insieme, più semplice.

Idrovolante bimotore Pc.4

Nel 1927 fui ancora interpellato dalla Regia Aeronautica per studiare un idrovolante da corsa per la gara del 1929.

La prima idea che ebbi è schematizzata nel pC.4

Il galleggiante centrale doveva incorporare due galleggianti laterali largabili e rientrabili meccanicamente. Gli assi delle eliche erano prolungati per dare alla navicella porta motori e pilota una grande finezza.

Ma questo idrovolante non mi soddisfece dal momento in cui mi accinsi a passare dalle fantasticherie sulla carta alle fatiche della progettazione effettiva. Mi apparve difficile il decollo con un galleggiante avente un così grande angolo longitudinale di chiglia tra le parti anteriori e posteriori dello scalino, e mi sembrò anche non semplice il comando meccanico dei galleggianti laterali.

Si può osservare che il mio illustre collega ing. Marchetti ideò e costruì un tipo analogo di idrovolante, ma con due galleggianti laterali in luogo del centrale, e con il trave di coda. Tale idrovolante fu portato a Calshot ma non partecipò alla gara.

Abbandonai sollecitamente questa idea per escogitare qualche soluzione che mi sembrasse più efficace.

Idrovolanti con superficie alare e scafo rialzabile Pc.5 e Pc.6

E' evidente che in luogo di volare con gli scafi e la fusoliera nella loro classica posizione relativa, che è da ritenersi dia luogo a fenomeni di induzione aerodinamica abbastanza ragguardevoli, si potesse volare condensando vicino all'asse del motore le sezioni maestre di quei tre organi, e riducendone in pari tempo la superficie frontale si dovrebbe ottenere un guadagno di velocità, a parità di potenza e di peso, specie accrescendo il carico alare unitario rispetto a quello corrispondente alla velocità minima.

Basandomi su questa idea studiai i due tipi di idrocorsa Pc.5 e Pc.6.

La stabilità trasversale statica in acqua era basata su due pinne a profilo alare di corpo col galleggiante, cosicché quando il galleggiante stesso era distanziato dalla fusoliera l'apparecchio si presentava come un sesquiplano. In volo il galleggiante con le sue pinne si sollevava meccanicamente fino a quando la fusoliera veniva a trovarsi semi-occultata entro un incavo praticato sulla coperta del galleggiante stesso. In pari tempo le pinne combaciavano con la parte centrale dell'ala principale e l'insieme diventava un monoplano che, essendo abolite le interferenze tra galleggiante e fusoliera e risultando accresciuto notevolmente il carico unitario dell'ala rispetto a quello occorrente per il distacco e l'ammaraggio, avrebbe dovuto presentare dei coefficienti di resistenza minori del consueto.

 

Da esperienza da me condotte personalmente a La Spezia nel 1916 risultò la certezza che l'acqua che si trovasse nell'incavo di coperta del galleggiante ne sarebbe uscita alla prima accelerazione dell'apparecchio.

Il problema più delicato di questa soluzione era evidentemente quello riguardante la manovra di alzamento e abbassamento del galleggiante che presenta due difficoltà: il peso notevole e l'incognita aerodinamica. Anche accettando l'aumento di peso per i dispositivi di manovra, era naturale che mi occorressero delle prove meticolose al canale del vento, che non mi fu possibile poter fare, come dirò fra poco.

Erano già note le esperienze compiute a Gottinga sulle ali monoplane che si scindono in biplane, ma mancavano dei dati positivi sull'entità delle azioni aerodinamiche che si sarebbero verificate durante il cammino che avrebbe fatto l'ala inferiore col galleggiante per unirsi all'ala superiore. Ciò mi lasciò perplesso, e in vista del fatto che la manovra avrebbe potuto essere eseguita dal pilota a velocità altissima con carico alare cospicuo e in presenza forse di movimenti vibratori delle ali, rinunziai a questa soluzione, abbenchè ne avessi di molto avanzato lo studio, per tornare al Pc.1 o a qualche cosa di analogo.

Le origini del Pc.7

Volli allora esaminare di nuovo la soluzione Pc.1 che ho già detto mi sembra possa rappresentare la più semplice espressione architettonica di un idrovolante di piccole dimensioni, con corpo abitabile.

Tanto per studiare a fondo i tipi Pc.4 e Pc.5, come per il Pc.1 mi sarebbero occorse lunghe esperienze personali al canale del vento, esperienze che evidentemente non avrei potuto affidare a terze persone nel senso che sarebbe stato continuamente necessario il mio intervento e la mia iniziativa, diciamo così, di inventore non facilmente sostituibile, come ben si comprende, né dalla abilità né dalla buona volontà di altri. In particolare non era gradevole domandare agli impianti aerodinamici di Roma che servono sia per il Regio Governo che per tutte le Ditte, il tempo e i mezzi necessari per le esperienze che avevo il proposito di fare.

Ottenni perciò di costruire presso la mia Ditta un canale del vento il quale mi sarebbe stato utile anche per altri studi, fra i tanti che desideravo o dovevo approfondire. Esso fu ultimato a Finalmarina, ma non potei attrezzarlo né metterlo in condizioni di funzionare. Fui perciò obbligato a modificare la soluzione del Pc.1 nel senso di consentire il funzionamento dell'elica sollevando dall'acqua integralmente la prua dell'idrovolante per mezzo del sistema illustrato nel brevetto inglese ndeg. 318858 e nel seguente brevetto italiano.

"Nuovo tipo di idrovolante appartenente alla SOCIETA' ANONIMA PIAGGIO & C. & ing. Giovanni Pegna, a Genova. La presente invenzione ha per oggetto un nuovo tipo di idrovolante il quale presenta la caratteristica di avere le eliche aeree basse rispetto alla luce di galleggiamento, per modo che sarebbe impossibile il loro funzionamento iniziale per il distacco dall'acqua, senza l'ausilio di due altre caratteristiche dell'idrovolante oggetto della presente invenzione, e cioè una o più eliche marine e due o più coppie di alette idroplane, intese le prime a conferire all'apparato la velocità sufficiente affinché questo si sollevi sulle seconde quanto basti per poter mettere in movimento le eliche aeree e provocare successivamente il distacco dall'acqua. Le figg. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8 rappresentano alcuni esempi di realizzazione dell'idrovolante di cui trattasi.

Nelle figg. 1,2 e 3 sono state applicate le alette Crocco; nella fig. 4 quelle Forlanini; nella fig. 5 quelle Guidoni; nelle figg. 6, 7 e 8 quelle PIAGGIO-Pegna.

L'elica marina può essere comandata da un motore indipendente, oppure da uno dei motori destinati alla propulsione in aria, mediante, in quest'ultimo caso, due giunti disinnestabili, uno sull'elica aerea e l'altro su quella marina.

Le eliche aeree possono essere mantenute orizzontali quando l'apparecchio non è ancora sufficientemente emerso, mediante opportuni scontri sul loro albero.

... Genova, 10 settembre 1928".

Durante le discussioni all'estero sulla priorità per questa invenzione potei vedere che precisamente in Inghilterra fu, nel 1912, ottenuto un brevetto dal sig. Burney su analogo argomento, del quale naturalmente non ero a conoscenza quando immaginai il Pc.7.

Mettendomi su questa via spostai il problema dal campo aerodinamico a quello idrodinamico, che mi sembrava più facilmente dominabile.

Nel 1917, destinato alla vasca Froude de La Spezia, avevo fatto una serie di esperienze con alette precise a quelle delle figg. 6, 7 e 8 del brevetto, derivato dalle precedenti, che avevano dato ottimi risultati. Memore di esse cominciai col costruire un modellino che, provato a rimorchio di un motoscafo, si comportò regolarmente fino alla velocità di 6 m/sec. Per l'equilibrio trasversale nella prima fase del sollevamento della prua, quando le alette erano ancora completamente immerse, dovetti per espediente sistemare in un primo tempo due piani inclinati sotto le estremità delle ali. Mi ripromettevo in pratica di superare questo ostacolo munendo le due alette idroplane di alettoncini comandati assieme agli alettoni delle ali principali; questa manovra sarebbe senza dubbio risultata efficace e per questo mi accinsi a far progredire il lavoro costruendo un modello successivo senza piani laterali, che fu spedito a Roma sotto la denominazione di "monoplano X" per le prove al canale del vento.

I risultati delle prove aerodinamiche furono incoraggianti. Proseguendo il mio studio volli, per suggerimento del gen. Crocco, cambiare il profilo alare del "monoplano X" che era un Curtiss poco portante, e adottai un Munk di maggiore portanza, sebbene anche di maggiore resistenza. Tuttavia potei così impiegare un'ala notevolmente più piccola che nel primo caso, con un evidente vantaggio nel peso e nella rigidità a flessione e torsione. Pervenni in tal modo al modello definitivo del Pc.7. Il problema impostato così si riprometteva semplice, ma in realtà presentò difficoltà notevoli ed imprevedute.

L'idrodinamica del Pc.7

Come si comprende da quanto precede, sia col Pc.1 che coi Pc.5, Pc.6 e Pc.7 intendevo abbandonare la classica architettura degli idrovolanti da corsa, da me stesso tracciata con anticipo nel Pc.3, per realizzare mediante idee non nuove, sintetizzate però in un complesso nuovo, un idrovolante che fosse veloce non per la sola prepotente virtù del motore, ma anche per la diminuita resistenza al movimento.

Come ho già detto, avevo spostato le difficoltà che mi si presentavano dal campo aerodinamico a quello idrodinamico. Non ne ebbi dei grandi vantaggi, ed anzi incontrai subito difficoltà tali che, se non avessi già iniziata la costruzione del Pc.7 in attesa di perfezionare la parte idrodinamica, sarei tornato al Pc.1.

Il lettore comprende certamente quale fosse l'ansia di far presto, e come tale ansia si traducesse nella necessità di non abbandonare il creduto buono per preferirgli il supposto meglio.

Nelle prime esperienze di rimorchio, fino a 5-6 m/sec, il modello si comportava in modo meravigliosamente regolare, esattamente come nelle mie previsioni. La prua si alzava fino alla posizione permettente di mettere in movimento l'elica aerea, mentre la poppa emergeva parzialmente.

Quando però accrebbi la velocità di rimorchio del modello, questo cominciò a comportarsi nei modi più vari e impressionanti. Istantaneamente esso, da sollevato come era poco prima, ricadeva nell'acqua e continuava a muoversi come se non avesse avuto le alette, oppure a un tratto si sbandava lateralmente e faceva talvolta un giro completo intorno a un asse longitudinale.

Fu esaminato il fatto, e si vide subito che si trattava di una specie di "cavitazione", per trasportare in questo campo il termine impiegato per indicare il fenomeno che avviene nelle eliche marine funzionanti al di sopra di una certa velocità periferica. Quando la velocità del modello raggiungeva un dato valore e le alette erano quasi completamente emerse (immersione da 1 a 2 centimetri), ad un tratto l'acqua si staccava dal loro dorso e l'aria si sostituiva all'acqua, richiamatavi dalla superficie di questa. Da questo momento la portanza delle alette era dovuta alla sola loro superficie inferiore e il relativo coefficiente cadeva a valori molto bassi che furono valutati a circa 1/4 dei primitivi. Se il fenomeno era simultaneo nelle due alette, il modello ricadeva diritto, altrimenti si sbandava come sopra ho detto.

Dovetti correre ai ripari, e cominciai con l'impiegare due diaframmi verticali od orizzontali, sulle alette, sperando di ostruire così il cammino dell'aria richiamata dalla depressione idrodinamica sul dorso delle alette stesse. E' chiaro che quando tale depressione (che nell'acqua, a parità di velocità, è circa 800 volte maggiore che nell'aria) supera 1 kg/cmq circa, si sta per verificare il fenomeno che in questo momento discuto. Si comprende perciò come l'espediente suddetto non sia stato efficace che in minima proporzione, e ciò del resto si poteva prevedere in base alla natura fisica del fatto.

La soluzione del problema la pensai il 18 dicembre 1928 a soli otto mesi dalla gara. Nel mio libro di appunti di allora leggo le seguenti frasi:

"L'apparecchio deve poggiare sulle alette anteriore e posteriore, quindi decollare. L'ammaraggio deve eseguirsi facendo toccare simultaneamente sull'acqua o quasi questi due punti. Occorre quindi provare le alette posteriori, superiore ed inferiore, in unione a quelle anteriori >>.

Tali prove ebbero buon risultato; rimase soltanto un breve passaggio di velocità (da 30 a 36 km/h al vero) durante il quale si verificava una leggera instabilità laterale, che non mi preoccupò perché avrebbe potuto essere vinta o con alettoncini, come già detto, o con l'allenamento del pilota, come dirò.

Considerazioni sulle alette idroplane

L'avere risolto il problema idrodinamico del Pc.7 come è detto sopra significa l'aver rinunciato alla portanza con circuitazione per utilizzare la portanza senza circuitazione propria dei corpi scivolanti.

Le pietre piatte lanciate quasi tangenzialmente sull'acqua (giuoco che si perde certamente nella notte dei tempi), e modernamente le carene idroslittanti ed anche "l'acquaplano", sono esempi pratici dell'utilizzazione della portanza idrodinamica senza circuitazione.

In sostanza dunque il Pc.7 quando poggia sui pattini si può assimilare a un comune idrovolante al quale siano stati asportati i galleggianti ad eccezione delle parti del fondo di questi che si trovano in prossimità e a proravia dello scalino e del "codino". Il sistema delle alette a V rovescio del Pc.3 avrebbe per iscopo di sostituire con spinte idrodinamiche le spinte idrostatiche dovute ai galleggianti ordinari.

Mentre svolgevo, assistito dall'ing. Gabrielli e con mezzi alquanto primitivi, le esperienze sulle alette, il gen. Crocco ordinò analoghe prove sistematiche sulla vasca Froude della Regia Aeronautica sopra le alette a V rovescio simili a quelle del Pc.7. Il fenomeno di cavitazione fu da lui subito messo in evidenza, e fu trovato che il profilo migliore a questi effetti è quello piano-convesso.

I risultati delle esperienze del gen. Crocco vennero a mia conoscenza nel dicembre 1928, e nella stessa epoca il generale stesso ebbe notizia delle mie prove precedentemente citate, delle difficoltà che mi si presentarono e della soluzione accennata più innanzi. Io non potei, pur essendo molto grato al gen. Crocco anche per altri suoi importanti suggerimenti, utilizzare le di lui accennate esperienze perché la cavitazione inibiva l'uso delle alette semplici al di sopra dei 70 km/h, ed imponeva l'adozione di superfici idroslittanti, e cioè senza circuitazione.

Le alette idroplane e i pattini

Con la scelta giudiziosa degli angoli di incidenza reali e quindi anche delle posizioni relative delle superfici idroplane, si può realizzare un rapporto 1/7 fra resistenza idrodinamica e peso della macchina, il che depone favorevolmente, in linea generale, per la soluzione adottata per il Pc.7.

In pratica però il Pc.7 originale si trova in condizioni di inferiorità per le seguenti ragioni:

1 - le superfici idroslittanti non si possono costruire frontalmente orizzontali, perché data la scarsità della portanza alare si manifesterebbero saltellamenti insostenibili dai 100 km/h in poi (ciò fu confermato sperimentalmente sui modelli).

2 - le superfici idroslittanti (pattini) non sembra sia consigliabile siano rettangolari. Con la forma e l'inclinazione frontale da me adottate forse ancora lontane dalla perfezione, si ha il vantaggio di un bel graduale contatto con l'acqua nell'ammaraggio, e di evitare i saltellamenti al distacco.

3 - l'incidenza delle superfici idroslittanti è troppo elevata quando la macchina si trova con i punti di appoggio a fior d'acqua.

A ciò è possibile ovviare col torcere dette superfici in modo che le loro incidenze geometriche vadano opportunamente crescendo dalle estremità interne verso le esterne. Per questi motivi, ed anche perché la parte poppiera dell'opera viva dello scafo viene investita dall'acqua a grande incidenza, le efficienze reali del Pc.7 (computando cioè tanto le forze idrodinamiche che quelle aerodinamiche) sono risultate nella prima realizzazione, peggiori nel paragone con gli altri idrovolanti da corsa.

Si può contare su un miglioramento certo delle efficienze durante il decollaggio nella seconda progettazione della macchina, mediante quanto è stato detto poco prima. Per fortuna l'elica marina, già originariamente attribuita alla macchina all'infuori di queste ultime considerazioni, si presta a risolvere bene il problema del distacco del Pc.7.

Dallo studio dei grafici caratteristici si vede che il pilota potrebbe inserire l'elica aerea a cominciare da una velocità molto bassa, e ciò si potrebbe fare se la spinta dell'elica stessa fosse, a quella velocità, già sufficiente da sola alla propulsione, il che potrebbe avvenire in un idrovolante non da corsa.

Infine merita accennare che mi vennero fatte obiezioni sull'ammaraggio del Pc.7. Questo non dovrebbe presentare difficoltà. Si pensi che l'incidenza dei pattini è circa 3deg. rispetto alla linea di volo alla massima velocità; ammarando quindi alla velocità massima il pattino darebbe, anche in questo caso limite, una spinta positiva con un'efficienza notevole e tale che certamente la reazione idrodinamica dei pattini passerebbe a proravia del baricentro. L'apparecchio non avrebbe dunque tendenza a capottare nemmeno in queste condizioni.

Ammarando a velocità conveniente, e sui punti di appoggio anteriori e posteriori previsti (i tre pattini) l'efficienza dei pattini diviene come minimo di 3, e quindi ogni pericolo di infilamento verrebbe escluso anche in questo caso. L'infilamento avverrebbe soltanto in seguito a un ammaraggio "sotto la linea di volo", e questo, secondo me, è da escludersi.

L'aerodinamica del Pc.7

Non presenta singolarità notevoli, se si eccettua il basso valore del coefficiente di resistenza minimo e l'alto valore di 52 (?, n.d.r.) dell'efficienza, non uguagliati, che io sappia, da idrovolanti con fusoliera costruiti o provati al canale del vento.

Le polari adimensionali del Pc.7 e del "monoplano X" (riferita anche questa alla superficie alare più quella delle alette idroplane) non coincidono, ma quest'ultimo è migliore del primo. Ciò dipende non tanto dal profilo alare, quanto e principalmente dal peggioramento delle alette, resosi necessario in seguito ai fatti esposti. Tuttavia il Pc.7 pur nella sua forma primitiva, che può essere molto perfezionata e, anche nel senso assoluto e cioè adimensionalmente, molto migliore che non gli altri idrocorsa da me conosciuti.

E' da ritenersi che adimensionalmente i Supermarine, i Macchi, i Gloster ed il Pc.3 praticamente si equivalgono, e che nei limiti degli errori di apprezzamento che potei aver commesso si equivalgono anche come polare effettiva, a parità di portanza totale massima.

Per questa considerazione ho creduto di poter dire in principio che il record del mondo di velocità è più il risultato dei perfezionamenti dei motori che non dei miglioramenti architettonici degli idrovolanti da corsa.

Le eliche

Queste fecero oggetto di tutte le mie attenzioni. I giri del motore che adottai (I.F. 800 CV) erano, dopo ridotti, 2600 al minuto, e la velocità massima della macchina era da me preveduta da 580 a 600 km/h. La velocità delle estremità delle pale sarebbe stata praticamente quella del suono.

Avrei voluto impiegare un'elica a quattro pale, appunto per diminuire la velocità periferica, ma lo stesso concetto del Pc.7 mi impedì di soffermarmi su una tale elica.

Per il Pc.7 furono perciò ordinate tre eliche a mozzo d'acciaio a pale orientabili della Standard Steel, e una di queste eliche, pur contro il parere di quella Ditta, fu da me fatta disegnare con le sezioni di estremità piano-convesse quasi simmetriche ed insolitamente sottili. Ciò per una estensione di una delle mia antiche nozioni di balistica esterna, che mi ricordano la convenienza di aguzzare l'ogiva dei proiettili per diminuirne la resistenza al movimento. Oggi si direbbe che alla velocità del suono la circuitazione non esiste più e che quindi i profili sottili e piani siano migliori, a quella velocità, che non gli usuali.

Oltre le suddette eliche a passo variabile, ne feci costruire dalla Caproni tre, di passi differenti e del tipo usuale, e cioè di blocco in duralluminio.

Le eliche a passo variabile mi occorrevano per diverse ragioni; più che altro per facilitare, con una opportuna scelta del passo, i primi distacchi dall'acqua.

L'elica marina a due pale di dural orientabili e comandabili fu progettata in base ad antiche esperienze su modelli eseguite alla Vasca Froude de La Spezia, e pubblicate negli Annali di detta vasca. Il punto di partenza era perciò sicuro, e difatti l'elica dette i risultati previsti.

Non potendo eseguire le prove di tale propulsore direttamente sul Pc.7 e anzi essendo necessario avere la massima sicurezza dell'elica marina prima di applicarla al Pc.7 stesso la mia Ditta costruì un motoscafo (lunghezza m 10, larghezza m 2, dislocamento kg 3000) per provarvi l'elica marina predetta, in presa diretta con un motore da 300 CV a 2000 giri. Questo motoscafo fu scelto da quelli da me anticamente esperimentati alla vasca, in modo che la sua curva delle resistenze al moto fosse molto prossima a quella ricavata per il Pc.7 alla Vasca di Roma.

Le prove sul motoscafo ebbero il doppio scopo di verificare che le spinte dell'elica fossero quelle richieste, e che la forza manuale occorrente per la manovra di variazione del passo da quello di servizio a quello infinito fosse di piccola entità, in modo che il pilota potesse esercitarla senza fatica.

La costruzione

Come avviene per tutte le idee considerate nuove, ebbi notevoli difficoltà iniziali per progettare e costruire il Pc.7, e ciò influì sul ritardo nell'approntare l'apparecchio, ritardo che provocò la sospensione delle prove e del mio lavoro ai primi del 1930.

Il primo e più grave ostacolo fu l'indecisione sul tipo di motore da impiegare. Questo doveva essere completato dagli innesti e trasmissioni alle due eliche, e dal dispositivo per far arrestare l'elica aerea orizzontalmente.

Dapprincipio la FIAT si interessò del problema e anzi desiderò associare il suo nome a quello della mia Ditta, per chiamare il Pc.7 PIAGGIO-FIAT. Iniziai il progetto servendomi del motore FIAT 1000 CV, e delle trasmissioni studiate dalla FIAT stessa. Qualche tempo dopo quest'ultima rinunciò alla sua collaborazione e allora, d'accordo con la Regia Aeronautica , fu interpellata l'Isotta Fraschini, che aderì all'invito. Il mio illustre e antico amico ing. Giustino Cattaneo, progettista dei motori I.F. esplicò così tutta la sua ammirevole genialità nell'interpretare le mie idee e tradurle in gioielli di meccanica.

Nell'esaminare lo spaccato del velivolo non sembra che vi siano state notevoli difficoltà nel realizzare la macchina ma, al contrario, dovetti ricorrere a tutte le mie risorse cerebrali ed a quelle dei miei collaboratori (ing. Gabrielli, dott. Luotto, sig. Arrigoni) per risolvere gli innumerevoli problemi che ogni giorno traversavano il mio cammino.

Basta riflettere al fatto che non avevo alcun precedente al quale ispirarmi, e che la lotta contro la ristrettezza dello spazio era a volte quasi drammatica. Fissata la sezione maestra dello scafo-fusoliera, non mi era più possibile fare modificazioni. Una quantità di problemi dovettero essere risolti alla bell'e meglio, ad esempio le prese d'aria dei carburatori, gli scarichi del motore, il radiatore dell'olio; tre punti delicati che funzionarono bene in pratica, ma che avrebbero dovuto essere più perfetti, come mi ripromettevo di fare proseguendo le prove, dopo la gara. Mi preme ricordare che omisi, perché il tempo stringeva, di sistemare sui pattini le alette comandate, fidando sull'allenamento del pilota per superare la breve fase di instabilità trasversale in acqua.

Effettivamente il Pc.7, pilotato dal compianto Dal Molin andava sui pattini come vedesi dalle foto (ritoccate da una non nitida cinematografia).

Sistemi costruttivi

La fusoliera stagna aveva molte longitudinali correnti da prua a poppa, ed era robusta e leggera in pari tempo.

 

Le longitudinali servivano per le unioni sfalsate dei corsi di fasciame, che erano in doppio sottile strato di legno compensato con tela impermeabile interposta.

Gli impennaggi stagni erano aerodinamicamente finitissimi, e la loro copertura era in legno compensato. Essi erano separati dalla fusoliera e l'asse del timone di direzione serviva anche per il timone di direzione marino.

La fusoliera aveva due paratie stagne, ed alla galleggiabilità dell'idrovolante contribuivano delle cassette di sottile alluminio corrugato, saldate.

L'ala era già stata costruita con due longheroni, quando il terzo fu aggiunto dopo che mi fu chiesto un fattore di sicurezza maggiore di quello da me scelto (16 in luogo di 13). Era completamente stagna, gli alettoni anch'essi stagni, e le loro cerniere e i loro comandi erano congegnati in modo che non vi fosse alcun apprezzabile gioco torsionale; ciò per prevenire le vibrazioni alari in volo che, come è noto, trovano grande incentivo dal gioco degli alettoni.

Le ali furono sottomesse complete, e sia con che senza radiatore con acqua, alla misura del periodo di vibrazione flessionale e torsionale, per verificare, come risultò, che nessun importante regime di rotazione del motore fosse multiplo del periodo proprio delle ali.

I radiatori alari avevano una portata di 55.000 l/h; il radiatore dell'olio fu, per così dire, improvvisato con prese d'aria a feritoia che si aprivano quando veniva messa in moto l'elica aerea. Oggi preferirei raffreddare l'olio con l'acqua dei radiatori principali, mediante un radiatore a tubi nascosto in fusoliera, e vorrei mettere le prese d'aria sopra anziché ai fianchi dello scafo.

Le prove

Queste hanno, purtroppo, una storia molto breve.

La macchina, appena messa in moto l'elica marina, sollevò la prua come preveduto.

Un notevole inconveniente si verificò subito: l'innesto dell'elica marina che, provata sul motoscafo, come dissi, e al banco prova, funzionò perfettamente, invece dentro l'apparecchio si inondava d'olio e slittava. Per questo, mentre il motore precipitava, l'apparecchio ricadeva in acqua, ma senza inconvenienti.

A ciò si ovviò più tardi, ma non perfettamente. Sarebbe occorso un portello di vista sul fianco della fusoliera, per registrare e pulire la frizione, ma non feci a tempo a provvedere perché le prove furono sospese.

 

Poiché il Pc.7 ormai non aveva servito alla gara, e nemmeno si sarebbe potuto immediatamente provare per un record di velocità, fu temporaneamente abbandonato sia dalla mia Ditta, sia dalla Regia Aeronautica.>>

Giovanni PEGNA
 

 Il P7 

Nel 1923 il neo costituito Ministero dell'Aeronautica decise di assumere in proprio la responsabilità della partecipazione italiana alla Coppa Schneider e competizioni analoghe. Tra i progetti presentati venne scelto il Pc.2 (dove Pc significa Pegna Corsa) di Pegna, derivato dal velivolo in concorso nello stesso anno nella categoria caccia. Essendo ormai Pegna progettista della PIAGGIO, l'aereo divenne il P4 e ne venne subito iniziata la costruzione. Difficoltà economiche fecero abbandonare il programma e d'altronde l'edizione 1924 della Coppa Schneider fu rinviata; non fu così completata la realizzazione di quello che sarebbe stato uno dei primi monoplani idrocorsa a galleggianti. Ma l'elaborazione di progetti di idrocorsa non fu abbandonata e per partecipare alla Coppa Schneider del 1929, la PIAGGIO progettò e costruì uno dei più originali idrovolanti mai concepiti. Si trattava del P7 (indicato dal progettista come Pc.7, Pegna corsa 7), di cui vennero ordinati due esemplari.

Il P7 costituiva un audace tentativo di impiegare alette idrodinamiche eliminando la resistenza aerodinamica dovuta agli ingombranti galleggianti, tipici di questi idrovolanti da corsa dell'anteguerra. Tutti i velivoli che partecipavano alla Coppa Schneider erano caratterizzati da soluzioni ardite ma il P7 sembra ancora oggi tecnologicamente molto avanzato. Immobile nell'acqua il P7 galleggiava con un assetto leggermente picchiato in modo che la linea di galleggiamento lambisse l'asse dell'elica aerea e l'intradosso delle ali rimanesse ben al di sotto dell'apertura del posto di pilotaggio e del piano di coda. Il concetto di base del P7 era teoricamente così riassumibile: il velivolo si sarebbe sollevato sulle alette idrodinamiche, durante la prima parte della corsa di decollo, mosso dalla sola elica marina, in modo che l'elica aerea fosse in grado di essere messa in rotazione senza interferenza con l'acqua, per mezzo di un innesto a frizione. Il sistema non era certamente adatto ad acque mosse, ma tutti i concorrenti della Coppa Schneider erano concepiti per operare da acque calme. Sfortunatamente nel 1929 non erano ancora disponibili innesti a frizione veloci e riduttori leggeri per la trasmissione di una potenza così elevata come quella erogata dal 12V Isotta Fraschini. Furono infatti i problemi di cavitazione delle alette, di imbrattamento d'olio e forse di lentezza dell'innesto nella commutazione della potenza dall'elica marina a quella aerea che non consentirono a quest'ultima di ruotare completamente fuori dell'acqua. Tutto ciò impedì al P7 di decollare e di dimostrare le sue prestazioni che, sulla carta, erano eccezionali. Pegna si impegnò comunque nello sviluppo del P7, ne progettò una versione da allenamento, una con ala a freccia e ne preconizzò un successore a reazione.

Il P7 era un monoplano con ala alta a sbalzo, a pianta ellittica, profilo di medio spessore, quasi simmetrico e linea media a doppia curvatura. L'ala, inizialmente bi-longherone, fu modificata sullo scalo con l'aggiunta di un terzo longherone, in modo da ottenere un fattore di sicurezza 16 anziché 13. L'ala e gli alettoni erano stagni. Particolare cura era stata posta nell'evitare che non vi fossero giochi torsionali e fenomeni vibratori in volo, dovuti alle cerniere ed ai comandi degli alettoni. Era stato anche verificato che nessun regime del motore fosse multiplo della frequenza di vibrazione flessionale (1.104 periodi al minuto, cioè 18,4 Hz) e torsionale (840 periodi al minuto, cioè 14 Hz) delle ali. L'ala stessa forniva la stabilità laterale statica in galleggiamento e anche quella dinamica nelle prime fasi del decollo. I radiatori dell'acqua occupavano la superficie superiore delle ali e la loro portata era di 55.000 litri all'ora. Il peso dell'ala completa dei radiatori e dell'acqua era di 272,5 chilogrammi.

La fusoliera a forma di scafo era completamente stagna, suddivisa da due paratie e a poppavia conteneva due cassette di alluminio sottile e corrugato, saldate, che contribuivano alla sua galleggiabilità. Il radiatore dell'olio copriva la superficie inferiore del muso, ma si prevedeva di sostituirlo con un radiatore a tubi in fusoliera, raffreddato con l'acqua dei radiatori alari. Sui fianchi della fusoliera si aprivano le prese d'aria dei carburatori. In corrispondenza dell'attacco delle alette idroplane la fusoliera recava un rinforzo in lamiera di acciaio. Il peso della fusoliera completa era di soli 246,8 chilogrammi; ma, benché fosse molto leggera, era anche notevolmente robusta grazie alla struttura con molti correntini longitudinali che andavano da prua a poppa e sui quali si univano, sfalsati fra loro, i due doppi corsi di fasciame in sottile legno compensato, fra i quali era interposta una tela impermeabilizzata. Anche gli impennaggi erano stagni e rivestiti in legno compensato. Il loro profilo aerodinamico era finissimo. Un unico asse serviva sia il timone di direzione aereo che quello marino. Gli impennaggi aerei pesavano 44 chilogrammi e quelli marini, con l'elica, 13,7 chilogrammi. Le due alette idroplane principali a "V" rovescio, avevano profilo lenticolare, erano anch'esse stagne e pesavano 86,2 chilogrammi con i pattini. Era previsto che fossero dotate di alettoncini comandati e, al momento dell'abbandono del progetto, se ne stava studiando l'allungamento. Una terza piccola aletta fu aggiunta davanti all'elica marina dopo le prime prove di rimorchio del modello per ridurre l'inclinazione dell'idrovolante nell'assetto di decollo e di atterraggio.

L'elica marina era a due pale di dural orientabili e comandabili, che in volo si disponevano orizzontalmente.

L'elica aerea, necessariamente bipala e a passo variabile, per poter sperimentare il passo migliore per il decollo, fu commissionata alla Standard Steel in tre esemplari con mozzo d'acciaio. Altre tre eliche in duralluminio, ciascuna con diverso passo fisso, furono realizzate dalla Caproni.

Il motore Isotta Fraschini, con giri elica ridotti a 2.600 al minuto, era un 12 cilindri a "V" raffreddato ad acqua (architettura classica degli Asso) e pesava, completo degli accessori e delle trasmissioni, 592,74 chilogrammi. Il motore era alloggiato nella parte anteriore della fusoliera profilatissima, la cui sagoma valse all'aeroplano il soprannome di Pinocchio. I dati sulla potenza di questo motore sono discordanti, perché a volte viene riportata la potenza di 800 cavalli, a volte di 850 cavalli. In realtà la potenza era identica a quella del motore dell'S65 e cioè compresa tra 970 e 1.000 cavalli.

Gli innesti delle due eliche al motore erano comandati dal pilota attraverso due leve poste alla sinistra della cloche. Con una leva si liberava l'innesto dell'elica marina e poi si provocava la disposizione delle due pale a passo infinito, così da ridurne la resistenza aerodinamica in volo; tirando la seconda leva veniva liberata e poi innestata l'elica aerea e si aprivano le saracinesche di presa d'aria dei carburatori. Queste ultime erano state posizionate sui fianchi della fusoliera, ma era previsto di portarle al di sopra. Spingendo la leva di comando dell'elica aerea, questa veniva disinnestata e poi arrestata per mezzo di un freno a ganasce. Il freno veniva poi allentato per consentire all'elica di raggiungere la posizione a pale orizzontali nella quale veniva bloccata da un apposito arresto. La stessa leva che comandava l'elica aerea apriva o chiudeva una valvola di foglio di gomma che aveva lo scopo di impedire all'acqua di penetrare nella fusoliera quando l'idrovolante era in galleggiamento con l'elica aerea bloccata. In tale ultima condizione l'aria giungeva al motore attraverso un boccaporto in cabina di pilotaggio.

Dei due P7 costruiti (MM126 e 127) uno rimase a Desenzano dove erano state effettuate le prove e venne demolito. L'altro fu inviato a Guidonia per continuare lo studio delle alette idroplane e lì appare ancora in una fotografia del 1944, ormai ridotto a relitto, attorniato da soldati alleati.

 

REPARTO ALTA VELOCITA' / TECNICA
- Un interessante retroscena relativo alla evoluzione del carburante usato per le gare della coppa Schneider e dei primati di velocità.

di Armando Palanca ( memorie inviateci dal figlio Alberto )
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"PREMESSA: Le note che seguono sono scritte basandomi soltanto sul filo della memoria.

Nel lontano giugno 1926,già in servizio militare all'aeroporto di Mirafiori (Torino) e precisamente alla 92° Squadriglia dell'8° gruppo caccia, dopo aver apportato una modifica al carburatore ZENIT 65DC del motore HISPANO SUIZA H.S.42 installato sugli aerei C.R.1 e A.C.2 (DEWOITINE) fui messo in contatto dall'allora Capitano Nuvoli Ing. Prospero, ufficiale di sorveglianza tecnica presso la FIAT aviazione con il Reparto Sperimentale della FIAT stessa per assistere ad alcune prove al banco del nuovo motore AS2 in fase di messa a punto che era destinato ad equipaggiare il nuovo idrovolante da corsa (M 39) in costruzione presso la MACCHI.

Tale motore, che sviluppava una potenza vicina agli 800 CV, era alimentato con una miscela contenente alcool e benzolo in percentuali coperte dal segreto. Dalle varie indiscrezioni, appresi dai discorsi dei tecnici della Direzione Esperienze, il carburante usato durante lo sviluppo del AS2 proveniva dalla generazione di quello usato dalla FIAT per i motori delle sue auto da corsa, vittoriose in molti gran premi di quell'epoca (tipo 403 dell'anno 1921 di 1486 cm3= 63 CV a 5000 giri, del 404 del 1922 di 1991 cm3=112 CV a 5000 giri, del 405 sovralimentato con compressore volumetrico di 1979 cm3=130Cv a 5500 giri ed infine del famoso 406 sovralimentato del 1927 a 12 cilindri di 1484cm3= 187 CV a 8500 giri, ultimo motore da competizione costruito dalla FIAT.

Nel maggio 1928 a seguito richiesta del Ten. Col. BERNASCONI, fui assegnato al Reparto Alta Velocità a Desenzano del Garda con l'incarico di dirigere la piccola officina di precisione, dove venivano preparati e modificati gli strumenti (contagiri e anemometri registratori) e di seguire le prove motori al banco.
Dal 1928 al maggio 1929 il carburante per i motori degli idrocorsa, usati per l'allenamento dei piloti in vista della prossima edizione della Coppa Schneider che si sarebbe disputata a Calshot il 7 settembre 1929, veniva preparato direttamente presso il RAV con le seguenti proporzioni: Benzina 60%, Benzolo 20%,Alcool 20%. Tale tipo di carburante così composto fu usato anche per il motore AS5 dell'idrocorsa FIAT C29 e per i motori ISOTTA-FRASCHINI Asso 2/800 dell’ MC 67 e Asso 1/500 del S65 (Savoia Marchetti) e del Piaggio Pegna P7.

Il 28 agosto 1928 il personale del RAV addetto agli idrocorsa partì per l'Inghilterra ed il 30 agosto raggiunse la base aerea di Calshot. L'aviorimessa assegnata al Reparto era affiancata a quella riservata al SUPERMARINE S.5 equipaggiato con motore ROLLS-ROYCE "R".

Qualche giorno dopo il nostro arrivo a Calshot, un pomeriggio arrivò di fronte all'aviorimessa del Supermarine un autocarro scortato da soldati armati dal quale furono scaricate alcune centinaia di lattine da 1 gallone, sprovviste di qualsiasi etichetta. Poco tempo dopo giunse il nostro brillante addetto aeronautico, cap. MONTI, in compagnia, come in tutte le occasioni, della sua bellissima moglie Yvonne di nazionalità belga. Si appartò in un primo tempo col nostro Comandante Ten. Col. Bernasconi e poco dopo furono chiamati i 4 motoristi militari : 1° aviere mot. Armando PALANCA, 1° aviere mot. Lorenzo MALFATTI, aviere scelto mot. Ugo BORDIN e aviere scelto mot. Dalmazio BIRAGO ai quali fu prospettata l'assoluta necessità di poter avere almeno due lattine di quelle arrivate poco prima.

Le lattine, contenente sicuramente un carburante speciale, erano sotto il controllo continuo di due militari in assetto di guerra. 
In base all'incarico avuto, ci appartammo per sviluppare e definire il piano operativo. Fortunatamente fra le due aviorimesse (quella italiana e quella inglese) esisteva una fontana dalla quale veniva prelevata continuamente l'acqua necessaria per i vari usi e quindi poteva essere utilizzata per lo svolgimento dell'operazione. Il piano prevedeva in un primo tempo il prelevamento continuo con i normali recipienti italiani della capacità di 20 litri per ingannare e distogliere l'attenzione delle sentinelle e fu messo in atto con la notevole vivacità degli italiani con scherzi e reciproci spruzzi d'acqua. 
Sfruttando un momento particolarmente favorevole, due di noi (PALANCA e BORDIN), muniti di recipienti senza fondo "incapsularono" due lattine contenenti il misterioso carburante e quindi con il dito mignolo furono prese le lattine e portate nella nostra aviorimessa.

Nel frattempo l'auto del cap. MONTI, giunta davanti alla nostra aviorimessa con una gomma preventivamente bucata, fu trasportata internamente e durante le operazioni per la sostituzione della gomma, le due lattine furono sistemate, con la massima accortezza possibile, sotto il sedile posteriore e subito portate a Londra per farle analizzare.

Due giorni dopo si seppe che il carburante contenuto nelle due lattine era una miscela di benzina, benzolo e alcool in proporzione vicine a quelle dell' AS3 FIAT che però aveva inoltre, in piccolissime percentuali, una nuova sostanza denominata piombo TETRAETILE di produzione americana.

Per la preparazione della Coppa Schneider del 1931,furono interessate soltanto due ditte (al posto di cinque precedenti) la FIAT per il motore e la MACCHI per l'aereo.

L' A.S.6 (tale è la sigla assegnata al nuovo motore di 24 cilindri- due A.S.5 accoppiati) fu progettato con un rapporto di compressione e per una pressione assoluta di alimentazione quasi doppia di quella atmosferica con l'adozione di un compressore centrifugo azionato meccanicamente, tenendo presente le qualità antidetonanti della miscela AS3 (benzina, benzolo e alcool) con l'aggiunta di piombo tetraetile fino ad un valore di 1.5 x mille.

Quando al motore, che dopo i noti inconvenienti dei ritorni di fiamma, fu applicato il sistema di alimentazione ed il carburatore idonei ad utilizzare, mantenendo costante il titolo, la pressione dinamica che con una presa d'aria opportunatamente proporzionata che apportava un incremento della pressione di alimentazione di 0.260kg/cm2 alla velocità di 720 km/h, il carburante fu preparato dalla FIAT stessa e sperimentato nell'apposito imponente impianto sperimentale di prove che riproduceva le reali condizioni di funzionamento in volo del motore.

Non risulta che Rod Banks sia stato presso il Reparto Sperimentale della FIAT e tanto meno (e questo lo posso affermare in modo assoluto) al Reparto Alta Velocità a Desenzano del Garda.
Presso il RAV, durante tutto il periodo (30 mesi) di preparazione del primato di velocità è stato presente saltuariamente soltanto il tecnico inglese della ditta K.L.G fornitrice delle candele per l' A.S.6 (Mr. King).

Roma 30 ottobre 1984 50mo del record

 

TOMMASO DAL MOLIN

"Nella schiera degli uomini illustri, dei quali la valle del Chiampo s'onora, Tommaso Dal Molin occupa un posto tutto suo, che lo distingue e lo caratterizza in modo singolare. Il suo nome durerà nel tempo non per meriti letterari, poetici o artistici; la gloria di Dal Molin è la gloria di un giovane semplice e modesto, che visse gran parte della sua vita nella paziente attesa di realizzare un sogno per lungo tempo vagheggiato. Nacque con la passione del volo; nel volo espresse tutto se stesso, salendo sempre più in alto, fino al vertice, dove una vita finisce e un'altra incomincia". Così Lorenzo Perazzolo apre una sua immagine di Tommaso Dal Molin, nato a Molino di Altissimo il 13 gennaio 1902 da Regina Peron e Domenico: fu il primo di sei fratelli (Bruno, Giuseppe, Afra, Maria e Germana), una famiglia umile e stimata che per ragioni di vita e di lavoro dovette stabilirsi a Chiampo. Per Narciso Bonato il nostro "seppe nobilmente congiungere l'alto valore al più puro sentimento religioso, forgiando il suo spirito alla scuola del dovere. Preparato al cimento che doveva strappare in dono alla Patria, il primato d'alta velocità, in un volo di prova, sulle acque del Garda tra Sirmione e San Severino il 18 gennaio 1930, cadde stretto al comando dei suoi motori. Eccezionale aviatore, nell'equilibrio di tanta perfezione, formò della sua vita un cantico indirizzato a Dio, alla Patria e alla famiglia". A Chiampo Tommaso Dal Molin visse vent'anni di vita, trascorsa serenamente nella casa, al circolo ricreativo della parrocchia, e alle officine Pellizzari di Arzignano. Soldato di leva nel 1922, venne assegnato al ITT Raggruppamento Aeroplani da caccia. Conseguì il brevetto di pilota otto mesi dopo. Esperimentò vari aerei e volò instancabilmente. Dimostrò qualità eccezionali: nel volo acrobatico meritò di essere annoverato tra i migliori piloti del mondo. Dal Molin fu inviato a Zurigo nel 1928 a sostenere il difficile confronto con i più famosi aviatori stranieri nelle gare di alta acrobazia conseguendo riconoscimenti ufficiali della sua alta classe e dei suo stile impareggiabile. Nella undicesima coppa Schneider del 7 settembre 1929 a Calshot in Inghilterra Dal Molin partecipò alla competizione internazionale degli uomini più veloci del mondo e con II suo Macchi 52 si classificò al secondo posto, venne proclamato invece il miglior pilota della gara. Fu descritto come un elemento "che conobbe del volo le finezze più occulte e le audacie più spavalde, senza sconfinare mai dove la temerarietà si muta in incoscienza. La sua volontà fu tenace ed inflessibile come i marmi dei suoi monti e la fede, che sempre lo animò, fu profonda come l'azzurro dei cieli che ovunque l'accolsero vittorioso". Nel pomeriggio del 18 gennaio 1930 Dal Molin sali a bordo dei potentissimo bimotore, con il quale si accingeva a riconquistare all'Italia il record dì velocìtà. Ma il suo aereo Idrocorsa Siai - 565 si ìnabissò nelle acque del lago di Garda. Il vertice fu raggiunto. "Cominciò per lui la seconda vita, dell'eternità, della gloria che non muore". Al nome di Tommaso Dal Molin, maresciallo pilota, insignito dal prestigioso distintivo di velocista, sono dedicati l'aereoporto militare di Vicenza, una via a Desenzano del Garda sul lungolago, una via a Chiampo, una via ad Arzignano, le scuole elementari di Molino di Altissimo, le scuole elementari di Chiampo e lo stadio di Arzignano. Una lapide lo ricorda anche sul frontespizio della casa natale a Molino di Altissimo. "